martedì 27 gennaio 2015

Le notti di Ava


Tutte le volte che provo a scrivere di Ava Gardner, mi rendo conto sin da subito di trovarmi di fronte a un'impresa disperata. La traiettoria umana e artistica di questa donna è punteggiata di "perpetui voli" (come diceva Henry Miller), di cambiamenti di rotta improvvisi, di passioni travolgenti che nel corso della vita la portarono a fissare la propria dimora nelle città più disparate. Raccontare con esattezza la storia di Ava è un'operazione destinata al fallimento, a meno che non si scelga di ricostruirne singoli momenti, così come ha pensato di fare, con risultati notevoli, Marcos Ordóñez nel suo libro "Beberse la vida. Ava Gardner en España".
Nata a Grabtown (Carolina del Nord) nel 1922, Ava Lavinia Gardner fu contrattata giovanissima dalla Metro Goldwin Mayer e per puro caso. Nei confronti del cinema maturò ben presto un sentimento di profondo disprezzo: "Odio il mio lavoro, lo faccio solo per soldi", diceva. Totalmente priva di ambizione, timida e insicura fino al parossismo, Ava non arrivò mai a considerarsi una vera attrice. Bella come nessun'altra diva del suo tempo ("Oh please, Ava Gardner is much more beautiful than me", ripeteva spesso Elizabeth Taylor), Miss Gardner alle luci dei riflettori preferiva di gran lunga l'oscurità che avvolgeva le sue imprevedibili scorribande notturne. Le "notti di Ava" erano veri e propri vagabondaggi da un night all'altro, corse febbrili lungo le città in cui si trovava a vivere o a lavorare: Madrid, Roma, Londra, New York. In compagnia di amici fidati, di spasimanti o di semplici conoscenze, le sue erano nottate alcoliche e di balli sfrenati (a Madrid era assidua frequentatrice di tutte i più famosi locali di flamenco) e nessuno era in grado di prevederne il finale. "Ava poteva immergersi nei fumi dell'alcol fino a perdere i contatti con chi le stava intorno", ha scritto in un suo libro Gene Lerner, amico e agente dell'attrice. "Poteva alzarsi di colpo dal tavolo annunciando 'Detesto questa topaia, andiamo via', o mettersi a ballare da sola, isolandosi in un mondo dal quale tutti erano esclusi". A volte, dopo il "giro dei locali", apriva le porte del suo appartamento d'albergo ai compagni di baldoria e improvvisava colazioni a base di caviale e champagne d'annata, oppure, con una scusa banale, piantava tutti in asso e si rinchiudeva nella sua stanza per mettersi ad ascoltare canzoni di Frank Sinatra, il grande amore della sua vita. "Venni al mondo alle dieci di sera e ho spesso pensato che fosse questo il motivo per cui sono diventata una creatura così notturna", scrisse la Gardner in "Ava - My story", la sua autobiografia. "Quando il sole tramonta, vedete, sono più...come dire, sveglia. Più viva. A mezzanotte mi sento fantastica. Anche quando ero piccola, mio padre scuoteva la testa e diceva: 'Speriamo che trovi un lavoro notturno'. Non immaginava neppure quello che mi aspettava. Ci vuole del talento per vivere di notte e questa è l'unica dote che non ho mai dubitato di possedere".
Madrid fu senza dubbio il luogo dove l'anima notturna di Ava ebbe modo di esprimersi al meglio ("Lì c'era davvero la "vita", locali che risuonavano di musica di chitarra, nacchere e flamenco. Se si conoscevano i posti giusti, le notti non finivano mai"). Famose erano le feste organizzate alla "Bruja", la villa fuori città in cui Ava visse per molti anni, o nel lussuosissimo appartamento di Avenida Dr Arce 11. Spesso, poco prima dell'alba, la si poteva incontrare al "Chicote", il celebre locale della Gran Vía, a bersi il "bicchiere della staffa" in compagnia del torero Luis Miguel Dominguín, al quale fu legata sentimentalmente per un breve periodo. Chi la frequentava trovava incredibile che la sua bellezza e la sua resistenza fisica potessero reggere i ritmi frenetici del suo stile di vita. Riusciva a stare tutto il giorno sul set e a vivere fino in fondo la notte senza nessuna difficoltà o segno di stanchezza.
Di cinema, nel suo "regno" notturno, era severamente proibito parlare. In fondo le soddisfazioni che ne aveva ricevuto, fatta eccezione per quelle economiche, non erano molte. Dei suoi film forse salvava solo "Mogambo" che le aveva procurato una nomination all'Oscar nel 1953. La sua incurabile fragilità la portava a dubitare di tutti e di tutto, perfino della sua bellezza e dell'essere diventata, suo malgrado, una star: "Forse non avevo il carattere giusto per gestire la celebrità", scrisse nel suo libro di memorie. "Non dimenticherò mai quando vidi Bette Davis all'Hilton di Madrid. Andai da lei e le dissi: 'Miss Davis, sono Ava Gardner, e sono una sua grande ammiratrice'. E, sapete, si comportò esattamente come volevo si comportasse. 'Ma certo che lo sei, mia cara', disse. 'Certo che lo sei'. E se ne andò. Insomma, quella sì che è una star". Del resto Ava non era fatta per rispettare le regole di Hollywood. La Metro Goldwin Mayer la multò ripetutamente per i clamorosi ritardi con cui si presentava sul set, per la totale noncuranza nei confronti di quello che la stampa poteva pubblicare sul suo conto, o per le volte in cui, impegnata a districare la matassa delle sue vicende amorose, causava, con la sua assenza, il prolungarsi dei tempi di lavorazione di un film. D'altronde vivere era la sua vera vocazione, amare senza riserve l'unica legge a cui sentiva di doversi attenere. Tutto il resto non le importava o poteva aspettare. Nell'oblio della notte non esisteva più.

GIULIANO FALZONE





domenica 18 gennaio 2015

Maria Bethânia, "Envelhecer é privilégio".

"Envelhecer é privilégio" ("Invecchiare è un privilegio"), ama ripetere Maria Bethânia, una delle più alte autorità musicali del Brasile, interprete conosciuta in tutto il mondo, donna di cultura e sensibilità fuori dal comune. Ma più che un privilegio, la vecchiaia nel caso di Bethânia non esiste. Quest'artista dall'età indefinibile, che mai è stata giovane e mai sarà vecchia, che in scena, grazie alla sua scienza interpretativa, ora è una "menina" che attraversa il palco correndo, ora un'ultracentenaria indigena dell'Amazzonia, sembra essere depositaria di un segreto che la colloca al di fuori del tempo. Un segreto che è certamente nella voce, in quel suo timbro particolarissimo che Vinicius de Moraes paragonava al crepitare dei rami di un albero che brucia, ma che risiede anche e soprattutto nella sua assoluta autonomia artistica, nell'incorruttibile fermezza con cui dimostra di non voler seguire le mode, nell'essere totalmente impermeabile alla paura di invecchiare. Come una sorta di minatore, Bethânia, sprezzante delle leggi del mercato, nei suoi ultimi dischi si è calata negli aspetti più antichi e profondi della cultura e delle tradizioni brasiliane, con l'intento di riportare alla luce un tesoro sconosciuto o dimenticato. "Brasileirinho", pubblicato nel 2003, attraversa la storia del Brasile puntando i riflettori sulla gente comune, sugli schiavi venuti dall'Africa, sulle usanze e i culti di uomini e donne che sembrano usciti dai libri di Guimarāes Rosa. in questi giorni, a poche settimane dalla pubblicazione di un dvd dedicato all'opera poetica di Fernando Pessoa (O Vento Lá Fora), Maria Bethânia festeggia 50 anni di carriera e lo fa con una nuova tournée ("Abraçar e agradecer") che sta registrando ovunque il tutto esaurito. Nella scaletta figurano le canzoni che hanno segnato il suo glorioso cammino d'interprete e i pezzi più recenti di "Meus quintais", l'album interamente dedicato agli Indios del Brasile. Il finale, che sembra stia suscitando molta impressione negli spettatori, è affidato a "Non, je ne regrette rien", la celebre canzone di Edith Piaf. Bethania, come testimoniano i video che circolano sul Web, ne offre un'interpretazione particolarmente originale e appassionata, perchè lei, come la Piaf, davvero non ha nulla da rimpiangere. Il rigore e la discipilna che regolano il suo lavoro e la capacità di rinnovarsi continuamente senza tradire se stessa, le hanno sempre dato ragione. Insofferente alle strategie, armata unicamente del suo talento e della piena fiducia nelle sue scelte, Dona Maria ha saputo conquistare il cuore della gente e diventare un classico. E come tale, nulla di ciò che la riguarda patisce gli effetti del passare del tempo.   

GIULIANO FALZONE













sabato 10 gennaio 2015

La lingua di Roma

Ho studiato per anni un'attrice che del dialetto romanesco aveva fatto uno dei suoi punti di forza. La Magnani parlava la "lingua di Roma" così come la parlava Petrolini, come la sentivo risuonare nei discorsi dei miei nonni di Trastevere e proprio come, fino alla fine degli anni '70, riecheggiava in alcuni vecchi bar di Testaccio, in qualche latteria di San Lorenzo, nelle gelaterie del popolare quartiere di San Giovanni. Nessuno ormai sa più parlare il romanesco. Quando giro per la città, mi accorgo che l'antico dialetto, quello delle canzoni di Romolo Balzani e di Gabriella Ferri, ha lasciato il posto ad una "lingua" barbara, povera e volgare. Perfino le "parolacce", da sempre care al popolo di Roma, hanno perso il loro antico vigore, la loro forza espressiva, la loro rustica musicalità. Un tempo il dialetto si mescolava ai rumori della città (quello dell'acqua che da secoli sgorga dalle fontane, i colpi di martello degli artigiani, le corse sfrenate dei bambini nei cortili) e il risultato credo fosse incredibilmente armonioso. Quella melodia oggi non esiste più.

Giuliano Falzone

                                              (Anna Magnani, 1942.  Foto Federico Patellani)

Romeo Gigli, quello stile che "sa di lontano".

Ho sempre amato smisuratamente l'arte di Romeo Gigli, geniale creatore di uno stile inconfondibile, "che sa di lontano", incentrato sulla contaminazione tra epoche ed etnie differenti. La sua irruzione nel mondo della moda, era il 1983, fu un vero e proprio evento rivoluzionario. Romeo Gigli, già nella prime sfilate, destrutturava le giacche, valorizzava i tessuti, proponeva capi in cui elementi di rigidità e morbidezza si combinavano in maniera del tutto inusuale. L'immagine aggressiva della donna anni '80, lasciava il posto a figure eteree e poetiche, ispirate alle ballerine di Degas e all'imperatrice Teodora dei mosaici di Ravenna. I colori erano, per la moda del tempo, assolutamente inediti: giallo anaconda, rosso rubino, verde vipera, blu Cina. Ricordo ancora le pubblicità sui giornali, immagini sofisticatissime che si accompagnavano a versi di poesie di Auden.

Osannato in tutto il mondo (nel 2003 il Fashion Textile Museum di Londra e il Metropolitan Museum di New York hanno esposto alcune delle sue creazioni), e imitato ai limiti del plagio, di Romeo Gigli, oggi, si sono quasi smarrite le tracce. Se si tenta di ricostruire il suo più recente percorso creativo, ci si imbatte in vuoti temporali di anni, tessere isolate (che continuano ad apparirci preziose) di un mosaico ormai difficile da comporre. L'auspicio, credo condiviso da molti, è che la sua presenza sulle passerelle riacquisti rilevanza e continuità; che il suo mondo di stilista intellettuale e viaggiatore, così vicino a quello dei grandi couturiers francesi, torni a regalarci incanti poetici e a svelarci nuove possibilità di contaminazioni armoniose fra il tempo e lo spazio.

GIULIANO FALZONE